Una delle prime storie che da ragazzo penetrò profondamente la mia fantasia raccontava di un villaggio i cui abitanti cominciarono d’improvviso a dimenticare i nomi delle cose. Immaginando un mondo di cose senza nomi, provavo un profondo senso di liberazione, come se lo spazio intorno a me si distendesse. Da giovane infatti, non riuscivo a ricordare il nome di qualcosa senza prima averla vista e toccata con le mani. La geografia ne è un esempio perfetto: soltanto nel tempo, viaggiando, ho imparato dove sono e dove confinano le regioni del mio paese. Tutto questo ovviamente fu causa di gravi insufficienze negli studi, ma per me era inderogabile, le cose venivano prima del concetto astratto che le indicava. Ovviamente non ho niente contro le parole, sono meravigliose creature, come lo sono i canti degli uccelli. Ma ciò nonostante spesso le dimentico, e quando succede provo ancora oggi un senso di beatitudine. E se un giorno non ricordassi davvero più la parola stella? cosa penserei guardando in alto il cielo di notte, e come indicherei le stelle ad un amico? Userei altre parole, nidi di fuoco, occhi brillanti del cielo, insomma farei poesia. E cosa accadrebbe se non ricordassi più nemmeno una parola? Allora vivrei nel puro incanto. La capacità della nostra mente si è evoluta creando astrazioni, concetti e parole per indicarli. Questa è stata una grande acquisizione per la nostra coscienza, ma l’atto astrattivo coincide con una separazione, e di conseguenza necessita di un’attenta cura alla riparazione, alla ricongiunzione, ed è questo il compito che spetta al mito, all’arte, alla poesia e al rito.
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